Come la Spagna, l’Italia ha perduto da molto tempo, e soprattutto irrevocabilmente, le antiche tradizioni centralizzatrici e unitarie di Roma, tradizioni conservate nelle opere di Dante, di Machiavelli e nella letteratura politica contemporanea non certo nella vivente memoria popolare; l’Italia, dico, ha conservato una sola viva tradizione, quella dell’assoluta autonomia non solo delle province ma anche dei comuni. Si aggiunga inoltre a questa primordiale concezione politica realmente connaturata al popolo, l’eterogeneità storica e etnografica delle varie province nelle quali si parlano dialetti tanto diversi che gli abitanti di una provincia capiscono con difficoltà e spesso non capiscono affatto i dialetti delle altre. Si capirà allora quanto lontana sia l’Italia dalla realizzazione del nuovo ideale politico, quello dell’unità statale. Ciò non vuol dire affatto che l’Italia sia socialmente divisa. Al contrario e malgrado tutte le differenze dei vari dialetti, degli usi e dei costumi, esiste un carattere e un tipo italiano comune che permette di differenziare subito l’italiano dagli individui di qualsiasi altra razza, sia pure meridionale.
D’altra parte l’effettiva solidarietà degli interessi materiali e la sorprendente identità delle aspirazioni morali e culturali uniscono nel modo più stretto e saldano fra di loro le province italiane. Si deve poi osservare che tutti questi interessi e queste aspirazioni sono precisamente dirette contro l’unità politica violenta e tendono al contrario all’istaurazione dell’unità sociale; si può quindi affermare e anche dimostrare per mezzo di un gran numero di fatti dell’attuale vita italiana che la sua unità politica o statalista imposta con la violenza avrà per risultato la disunione sociale e, di conseguenza, la distruzione del nuovo Stato italiano avrà come infallibile risultato la sua libera unità sociale.
Tutto ciò evidentemente riguarda solo le masse popolari perché negli strati superiori della borghesia italiana, come in tutti gli altri paesi, insieme all’unità statale si è venuta creando, sviluppando, estendendo sempre più l’unità sociale della classe privilegiata degli sfruttatori del lavoro popolare.
Questa classe viene oggi genericamente definita in Italia la consorteria. La consorteria comprende tutto il mondo ufficiale burocratico e militare, poliziesco e giudiziario; tutto il mondo dei grandi proprietari, degli industriali, dei mercanti e dei banchieri, tutti gli avvocati e tutta la letteratura ufficiale e ufficiosa e l’intero parlamento in cui la destra approfitta oggi di tutti i vantaggi offerti dall’amministrazione mentre la sinistra aspira a impadronirsi di quella medesima amministrazione.
Così in Italia come ovunque impera la classe politica una e indivisibile dei furfanti che spogliano il paese in nome dello Stato e che lo conducono per il maggior profitto loro al più basso livello di povertà e di disperazione.
Ma la miseria più terribile quantunque colpisca milioni di proletari non è ancora un motivo per la rivoluzione. L’uomo è dotato dalla natura di una meravigliosa pazienza che spesso, è vero, rasenta la disperazione, e solo il diavolo sa fino a quando, con la miseria che lo costringe a privazioni inaudite e a una morte lenta per inanizione, sia anche afflitto da quella stupidità, da quella ottusità di sentimenti, da quella assoluta assenza di una qualsiasi coscienza dei propri diritti e di quella imperturbabile pazienza e ubbidienza che contraddistinguono fra tutti i popoli in special modo gli indù orientali e i tedeschi. Un uomo così fatto non si riprenderà mai; morirà ma non si rivolterà.
Ma quando è portato alla disperazione la sua ribellione diventa possibile. La disperazione è un sentimento acuto e appassionato. Scuote la sopportazione ottusa e sonnolenta e presuppone se non altro un certo grado di comprensione della possibilità di una condizione migliore che non si esclude, a priori, di poter raggiungere.”
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