La rivolta atea di Sade

“Una volta che gli uomini avranno rinnegato Dio, uno per uno(...), l’uomo sarà sollevato da uno spirito di divina, titanica fierezza e apparirà l’uomo-dio. Conquistando di ora in ora la natura, senza limiti, grazie ala propria volontà e alla scienza, l’uomo sentirà di ora in ora un piacere così sublime che lo compenserà di tutte le passate speranze di voluttà celesti(...). Colui che riconosce la verità sin da adesso può organizzare legittimamente la propria vita secondo i nuovi principi. In questo senso, ‘tutto gli è permesso’ (...), dal momento che Dio e l’immortalità non esistono, all’uomo nuovo è permesso di diventare un uomo-dio, anche se dovesse essere l’unico in tutto il mondo, e, promosso alla nuova posizione, a cuor leggero scavalcherà tutte le barriere della vecchia moralità dell’uomo schiavo, se sarà necessario. Per un dio non c’è legge che tenga! Là dove c’è un dio, ivi è già posto divino. Dove ci sarò io, sarà il posto migliore...’tutto è ammesso’, punto e basta!”.
È Ivan Karamazov che, nel suo delirio allucinatorio, urla la propria rivolta contro Dio; Lester Crocker propone un’interessante connessione fra l’opera di Sade e questo personaggio dostoevskijano, sottolineando come in entrambi, la dichiarazione di ateismo sia una constatazione necessaria della liceità di ogni azione, quindi anche del crimine. Entrambi sembrano inferire la non esistenza di Dio dall’osservazione dello stato di infelicità e di infamia che circonda l’uomo, ma sembra che in Sade tale aspetto, del quale egli è sicuramente debitore al materialismo di autori come Helvétius o D’Holbach, a cui d’altronde rimprovera di non aver approfondito l’indagine sulla realtà effettiva della vita umana e sulla sciagurata idea di Dio, non raggiunga gli esiti noti del deismo o del determinismo e si rivolga piuttosto verso un piano descrittivo in cui protagonista è la violenza delle passioni soggiogate dall’impotenza assoluta dell’uomo dinanzi alla natura.
Se l’angoscia di Ivan Karamazov è l’odio verso un dio che consente il pianto dell’innocente, l’angoscia dei personaggi sadiani è relativa alla propria inadeguatezza rispetto alla violenza come movimento di negazione pura, proprio della Natura. Se entrambi possono giungere alla medesima conclusione: se Dio è morto, allora tutto è permesso, tuttavia in Sade si eleva da questo momento l’urlo del soggetto che scatena l’intero repertorio del proprio immaginario delittuoso per ingaggiarsi in una spaventosa sfida con l’ordine dell’universo e degli uomini.
La rivolta di Karamazov è contro Dio, contro quel Dio che Dostoevskij cerca e sempre nega, quella del libertino sadiano, e forse anche di Sade uomo, è la rivolta contro l’uomo, contro il sistema sociale, contro la Natura. Il libertino deve distruggere tutto perché da queste ceneri possa nascere ed affermarsi come unico il suo proprio Io.
Se, come osserva Crocker, “per il materialista del diciottesimo secolo(...) l’universo non è morale, ed i nostri giudizi puramente umani non hanno alcun significato in rapporto ad esso, né ne condizionano l’esistenza”, per Sade l’uomo non ha più necessità di ricercare un principio fondante della realtà; egli è già persuaso della onnipotenza della Natura e se può tendere a conformarsi a qualche sistema, è esattamente all’ordine supremo di malvagità che l’universo gli impone.
Sade raccoglie una sfida, “che cosa poteva impedire a qualche anima coraggiosa, anche se in errore, dal gridare: quale uomo può dirmi ciò che è giusto, e quale uomo ha il diritto di farmi obbedire alla sua idea piuttosto che alla mia? Questa era l’impresa che il destino avrebbe affidato al marchese de Sade”.
La sfida che il destino ha lanciato, Sade l’ha accolta sfidando Dio attraverso l’uomo-dio di Dostoevskij, attraverso quell’ateismo che, seguendo Klossowski può sostenere che la sovranità dell’uomo in Sade nasce dalla disintegrazione dello stesso e dalla attualizzazione del carattere divino della mostruosità, sembra di poter a ragione aggiungere che alla morte di Dio egli sostituisce la sovranità del Medesimo sulle ceneri dissolte dell’Altro.
Sorge dalla dichiarazione di ateismo la potenza ambigua e tragica, che si propone drammaticamente avvolta nella spirale del desiderio; desiderio totalmente rivolto verso un oggetto assoluto di cui la coscienza potrà constatare solo la mancanza, la perdita definitiva e anch’essa assoluta.
L’interdetto circa l’esistenza di Dio, che è l’interdetto costituente la base della coscienza del soggetto e della sua significazione, rompe, sfida, sfonda la totalità del me, dando adito alla trasgressione inesorabile delle naturali norme del vivere, altresì fissando la possibilità d’esistenza proprio sulla dissoluzione dell’oggetto di desiderio su cui la coscienza medesima si fonda.
L’ateismo avrà la funzione di affrancare la ragione dalla struttura normativa e, al tempo stesso, dalla sua identità antropomorfa; sarà probabilmente l’unica maniera di eguagliare la potenza distruttrice della Natura nel suo essere negazione pura e, attraverso tale equiparazione, di ottenere la vittoria definitiva su di essa.
“Sade(...) veut affranchir la pensé de toute raison préétablie: l’atheisme intégral sera la fin de la raison anthropomorphe”.
Così Sade descritto da Weiss:
“Soltanto noi attribuiamo alla nostra vita/ un qualche valore/ la natura ci vedrebbe in silenzio / sterminare l’intera razza umana/ Odio la natura/ la voglio sopraffare/la voglio vincere con le sue mani/ la voglio prendere nelle sue reti”.                      
La perversione dei personaggi messi in scena da Sade è la chiave che permette di rappresentare la Natura coincidente con il sensibile; in questo gioco di rimandi la ragione perversa, che deride le norme del vivere, si configura, seguendo l’indicazione di Klossowski, come l’umiliazione del sensibile raisonnable, il quale, a sua volta, dissolve la ragione normativa. La ragione perversa che replica la ragione che censura il sensibile, reintroduce la sanzione punitiva nel sensibile raisonnable attraverso l’oltraggio -oltraggio alle norme del vivere oltreché, si può aggiungere, alle norme della ragione e dell’ordine da essa istituito.
“En interprétant l’acte aberrant comme une coincidence de la nature sensible et de la raison. Sade humilie à la fois la raison par le sensible, et le sensible ‘raisonnable’ par une raison perverse”.
Per Klossowski, se si fa astrazione dalla stretta connivenza fra la ragione perversa e il sensibile raisonnable, connivenza che spezza la normatività della ragione e fa derivare l’ateismo da una concezione dell’anomalia fortemente legata alla ragione stessa, se si prescinde da ciò, quindi, si nega l’elemento essenziale dell’ateismo e della perversione sadiana, ossia il pesante intreccio fra la trasgressione e l’oltraggio. La prima poggia inesorabilmente sulla possibilità d’attuazione del secondo - per questo la trasgressione si fissa inequivocabilmente sull’ateismo. L’oltraggio sembra, allora, prendere due direzioni, verso la ragione normativa e verso le normali funzioni del vivere; si organizzano queste ultime in funzione della prima già disorganizzata a partire dalla sua traslazione in ragione perversa.
Qualsiasi ordine, razionale o morale, è così ricondotto all’inutilità del nulla; il problema è vedere in cosa poi effettivamente consiste tale nulla, tale assenza di struttura e come si risolva nell’innesto di una ragione e di una sensibilità ripensate alla volta del soggetto assoluto che Sade tenta di attualizzare.
La trasgressione si dà solo a partire dal’esistenza di un ordine che deve essere trasgredito; l’assenza di tale ordine renderebbe l’atto di perversione inutile e insignificante. Al tempo stesso tale atto ha da ripetersi all’infinito, pur senza rivelarsi mai come il doppio del già compiuto; la ripetizione deve attualizzare la possibilità assoluta della trasgressione in quanto insubordinazione delle norme del vivere, sempre supposte come vigenti.
L’insubordinazione delle norme del vivere, attraverso la reiterazione dell’oltraggio testimonia al tempo stesso della dissoluzione della possibilità di vita per la specie: l’atto sodomita racchiude in sé l’accusa al principio di vita come essenziale alla natura dell’uomo e alla Natura prima, principale attrice di tale distruzione dell’esistente.
“Le fait d’exister consacre la mort de l’espèce dans l’individu. Être se verifie en tant que suspension de la vie même. La perversion correspondrait ainsi à une propriété d’être fondée sur l’expropriation des fonction de vivre”.
La sodomia, rappresentando il simulacro dell’atto di creazione, ne diviene al tempo medesimo e per ciò stesso, la derisione, la beffa. In tal senso si è in presenza non tanto di un’attitudine al rifiuto dell’atto generativo, quanto di un’aggressione al medesimo. La trasgressione delle norme del vivere nell’atto dell’oltraggio si trasforma in ultima istanza nella pratica della prostituzione universale degli individui, ultimo esito dell’ateismo.
In tali pratiche di perversione, di trasgressione, è interessante notare con Klossowski come per Sade non si tratti di decifrare l’oltraggio a partire dalla norma, quanto piuttosto di concepire la trasgressione come costituzionalmente data, come fenomeno congenito tutt’al più da spiegare in funzione di un disvelamento razionale, alla stregua di tutto ciò che accade in natura. D’altra parte lo stesso ateismo non ha possibilità di essere realmente integrale che a patto di realizzare in pieno il processo di razionalizzazione della perversione, la quale, da parte sua, non può aspirare a divenire mostruosità integrale, se non facendosi appunto razionale.
“La riproduzione non è per niente il fine della natura; è solo una tolleranza da parte sua, e quando noi non ne approfittiamo le sue intenzioni sono rispettate al meglio.” “(la natura) Non rispettiamo altro che il suo divino mormorio;/ Ciò che le nostre vane leggi puniscono in tutti i paesi/ È ciò che per i suoi scopi ebbe sempre maggior valore/ Non è che l’effetto su di noi della sua mano corruttrice/ E quando , in base alla nostra condotta, temiamo di fallire/ Riusciamo soltanto ad accoglierla meglio./Questi eccessi che gli sciocchi credono illegittimi,/ Sono soltanto le deviazioni che piacciono ai suoi occhi, i vizi, le inclinazioni che meglio la dilettano;/ Consigliando l’orrore, consegna la vittima:/ Colpiamola senza fremere, e non temiamo mai/ Di avere, cedendole, commesso qualche misfatto./ (...)Nessuno è risparmiato dalle sue leggi omicide,/ E l’incesto, lo stupro, il furto, i parricidi,/ I piaceri di Sodoma e i giochi di Saffo,/ Tutto quello che nuoce agli uomini o li getta nella tomba,/ Non è, siatene certi, che un modo di piacerle”.
Negata l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, emerge lo squarcio dell’infinito rimasto nel vuoto del nulla dell’esistente, colmabile solo dal movimento eterno della Natura; solo tale dinamismo può darsi come causa prima dell’origine dell’universo, ma ciononostante, ciò che rimane problematico è l’essere e la funzione dell’uomo in questo abisso di nulla.
Il problema del rapporto, probabilmente irrisolto, con questo nulla, è ciò che emerge costantemente negli scritti di Sade, alla stregua delle incessanti dissertazioni sulla evidenza delle ragioni della professione di ateismo.
“En détruisant l’idée de la cause première, la pensée humaine s’ouvre l’univers et débouche sur l’infini.”
Il problema sarà proprio di confrontarsi con l’infinito che così appare e l’uomo che Sade mette in scena dovrà di necessità collocarsi o cercare di occupare un posto in tale universo schiuso e violento, perso nell’assenza o nell’oblio di un’origine divina. Affiancarsi alla potenza creatrice e distruttrice della Natura, significa, però, operare in tale violenza di distruzione e giungere al limite dell’abisso dentro di sé, lì dove la posta ultima in gioco è la perdita e l’annullamento di sé, attraverso l’affannosa ricerca di un’identità fissata sul vuoto d’esistenza d’altri.
Lo stretto nesso fra la predicazione di ateismo e la scoperta del nulla, incarnato nell’onnipotenza della natura che schiaccia l’impuissance degli esseri, è ciò che consente a Sade di sconvolgere costantemente e l’ordine delle rappresentazioni e quello della scrittura; scrittura in cui è fortemente presente tale abisso di nulla disarmante, lingua che trascina inesorabilmente verso il tumulto del disordine, del caos, in cui asserzioni opposte e contraddittorie si susseguono, rendendo impossibile districarvisi - quello stesso caos che spinge Blanchot a parlare di un’oscurità profonda della scrittura sadiana, un’indiscernibilità che non permette di affermare ciò che essa si propone realmente di svelare.
“Il ne résulte que tout ce qui est dit est clair, mais semble à la merci de quelque chose qui n’a pas été dit, qu’un peu plus tard ce qui ne s’est pas laissé dire se montre et est ressaisi par la logique, mais à son tour obéit au mouvement d’une force encore cachée et qu’à la fin, tout est mis au jour, tout arrive à l’expression, mais que tout est aussi replongé dans l’obscurité des pensées irréfléchies et des moments non formulables.”
Allo stesso modo Heine osserva come la potenza di Sade e della sua scrittura lo sospinga violentemente verso il limite estremo del suo pensiero, stravolgendo il rispetto delle norme razionalmente ammesse dallo stesso e portandolo al fondo oscuro dell’assoluto e dell’indicibile.
“Qu’on ne perde point de vue que Sade est un absolu et qu’il va droit devant lui jusqu’qu bout de sa pensée, jusqu’à l’extrême limite de ses conséquences logiques”.
Portare il pensiero ai suoi stessi limiti, concepire l’assoluto partendo dalla dichiarazione d’ateismo è, al tempo stesso, abolire qualsiasi idea del limite e dare così la possibilità reale di concepire in modo profondo e radicale l’essenza dinamica della Natura; dinamismo che riecheggia i movimenti di trasformazione  e di divenire della materia, così come degli esseri e che porta alle estreme conseguenze il pensiero dei materialisti a Sade non estranei. Ciò che, però, distanzia irreparabilmente Sade da questi è proprio il fondo di irrispetto, di oscenità, che gli permette di non concepire l’ordine caotico dell’universo come tutto immutabile, ma lo sospinge piuttosto ad insistere sulla liceità di qualsiasi atto, anche e soprattutto di quello che porta in sé l’effigie estrema della distruzione, perché tutto ciò che si accosta alla potenza assoluta della Natura è da essa voluto e sospinto.
I limiti devono essere costantemente infranti perché il sistema della materia, così come quello del desiderio, non posseggono la dimensionalità ristretta dell’ordine e della ragione calcolante, essi esigono il balbettio dell’essere totalizzante e il vacillamento dell’unità magmatica dell’uniforme -il molteplice diverrebbe perciò molteplicità. Tuttavia qui Sade non giunge, non arriva al limite estremo del balbettio, non vacilla fino al punto assoluto in cui il soggetto si dissolve; egli dissolve il referente assoluto divino, ma non può fare a meno dell’oggetto assoluto, della vittima su cui reiterare l’atto di potenza che dà garanzia dell’essere, dell’esistenza totalitaria del carnefice, in ultima istanza dell’Io.
Sade riesce a giungere solo fino al limite estremo del sistema morale con la negazione irreparabile di Dio: negando Dio in un modo ferocemente radicale, rispetto ai suoi contemporanei, in quanto recupera con ciò le conseguenze ultime dell’accezione dinamica della materia, è l’unico a risolvere il problema dell’ordine morale, della soglia tra il bene e il male, abolendo il garante divino che ne fissa i limiti di discernibilità.
Con Le Brun si può sostenere che Sade riesce a fare luce sulla possibilità delle relazioni fra gli individui, dichiarato l’ateismo, facendo leva su una concezione delle passioni considerate ora al di là del bene e del male. Se si accetta di riconoscersi come determinati all’interno del turbinio caotico della materia e dei suoi moti, non ci si può sottrarre all’evidenza della forza incontenibile che travolge le creature affette da passioni -passioni che sole rendono conto dell’inclusione degli esseri nell’universo.
“Provami l’inerzia della materia e io ti concederò il creatore; provami che la natura non è sufficiente a se stessa e io ti permetterò di supporle un signore. (...)Il tuo dio è una macchina che tu hai fabbricato per servire le tue passioni, facendola muovere in accordo con esse, ma da quando intralcia le mie ho fatto bene a distruggerla(...)”.
“Creato dalla natura con interessi molto vivi, passioni molto forti; messo al mondo esclusivamente per abbandonarmi ad essi e per soddisfarli, siccome questi effetti della mia creazione altro non sono che necessità relative alle mire della natura o, se ti suona meglio, le essenziali conseguenze dei suoi progetti su di me, del tutto in accordo con le sue leggi, mi pento di non aver riconosciuto abbastanza la sua onnipotenza, e i miei rimorsi sono quelli di aver fatto un mediocre uso delle facoltà(...)che mi aveva donato per servirla”.
L’elemento sconcertante del pensiero di Sade quando porta alle estreme conseguenze l’ateismo e il materialismo di autori quali D’Holbach o La Mettrie è costituito dalla piega asociale su cui insiste l’analisi delle passioni e la rappresentazione della società dei libertini; a differenza dei materialisti e dei deisti, che mirano a ricomprendere le passioni nel sociale attraverso la loro moralizzazione in un sistema retto dai principi dell’interesse e dell’utile, Sade, dal canto suo, rappresenta la realtà umana avvolta nella logica efferata delle passioni, portando gli uomini da un lato in un sistema concepito al di là del bene e del male, dall’altro in un sistema fondato sulla non socievolezza delle passioni, le quali presuppongono altresì l’allontanamento, lo scarto istituito e necessario, fra gli esseri che tendono all’assimilazione nella Natura prima e quelli che invece si tutelano dietro raffigurazioni menzognere ed inutili della realtà.
“Ciò che è detto l’interesse della società non è altro che la massa degli interessi riuniti, ma solo cedendo tale interesse particolare (l’uomo) può accordarsi e collegarsi agli interessi generali(...). Gli uomini nacquero isolati, invidiosi, crudeli e despoti, con volontà di tutto avere e niente cedere, e in continua lotta per mantenere o la loro ambizione o i loro diritti(...). Dunque, il vero saggio è colui che, pur con il rischio dello stato di guerra precedente al patto, si scatena con determinazione contro tale patto, lo viola quanto più è possibile, sicuro che ciò che ricaverà da tali lacerazioni sarà sempre superiore a quanto potrà perdere, nel caso sia il più debole perché tale sarebbe ugualmente rispettando il patto”.
“Sono uomo della natura, prima di essere quello della società; ed io ho il dovere di rispettare e di seguire le leggi della natura prima di badare a quelle della società: le prime sono infallibili, le altre sovente ingannano”.
Si comprende perciò la chiusura del castello di Silling, così come l’inaccessibilità e l’insostenibilità della scrittura sadiana; così Le Brun:
“Sans aucun doute, la sauvagerie logique de Sade le conduit-elle à ne pas s’arrêter lò où tous les autres s’arrêtent, tour à tour pris de vertige devant leur nouvelle liberté de penser qui, en son principe, ne connaît pas le borne. S’arrêtent, comme le baron d’Holbach, par exemple, déduisant(...)del’idée de mouvement la nécessité d’un sens(...). Sens physique d’abord qui divient sens moral et cela en recourant peu logiquement à l’ambiguité de la notion de direction pour justifier a posteriori ce qui est un choix idéologique et non logique, puisqu’on sait qu’à travers cette notion de direction qui serait réglée par les propriétés de chaque être, d’Holbach a tôt fait de trouver l’idée de gravitation sur soi et, avec elle, la valeur structurante de la limite”.
La morale sensibile fondata sulle passioni è la morale del singolo che, in quanto tale, dissolve qualsiasi possibilità di istituire una morale effettiva, nonché un’idea di società; la solitudine assoluta che i libertini ricercano per godere delle loro voluttà, è ciò che li distanzia in un’atemporalità incolmabile dal resto dei sistemi sociali. Sade, escluso dal mondo degli uomini e da quello del pensiero ufficiale, condannato ad una relegazione fisica e mentale che fomenta la violenza della sua scrittura e lo imprigiona nelle maglie degli apparati giudiziari, si rappresenta la condizione solitaria dell’uomo come la sola ad esso connaturale e crea nella società dei libertini la realtà della non socialità delle passioni e del loro tanatonico dominio.
In questa solitudine egli è in grado, perciò, di plasmare a pieno il nuovo soggetto che, elevandosi al generale con la ferma presupposizione del proprio particolare, si fa sostrato ontologico del reale, approssimando la violenza pura della natura.
“Perché le leggi non sono fatte per il particolare, ma per il generale, il che le mette in continua contraddizione con l’interesse personale ammesso che l’interesse personale lo sia sempre con l’interesse generale”.
Attraverso l’esaltazione del particolare, ciò che viene messo in discussione è esattamente il concetto di ordine, di stabilità, su cui si può fondare un assetto sociale.
Interessante il commento di Le Brun:
“Se, à ses yeux, le général n’est envisageable que comme la somme des particularités, et rien plus, il s’ensuit que le particulier, la singulier, l’unique, devient le seul élément stable de tous les rapports entre particulier et général que nous sommes appelés à vivre. Et c’est trés grave: somme toujours variable des particuliers, le général devient dès lors synonyme d’instabilité(...) Ce faisant, Sade sape, avec nos modes de penser le plus éprouvé, les bases de notre société mais aussi de toute les société, dans le mesure exacte où l’instabilité qu’il prête au général, discrédite absolument l’idée même de loi”.
Sempre Le Brun sottolinea la contrapposizione fra il concetto di materialità esplicato da Sade e quello di dematerializzazione emergente dal processo di moralizzazione delle passioni e dei desideri, messo in atto dai materialisti del XVIII secolo. La possibilità di fondare un ordine sociale è data solo a partire dalla dematerializzazione delle passioni particolari in vista di una sublimazione nell’idea di volontà generale; per compiere tale atto di ‘sublimazione economica’ sembra necessario far ricorso all’istituzione di un apparato che fa astrazione dal sostrato materiale e sensibile dell’umano. Ciò vuol dire investire il pensiero e la vita dei singoli di credenze metafisiche, di inganni teologici o di astrazioni giuridiche ed economiche; è contro un simile apparato di fantasmatizzazione del reale che Sade scaglierà la violenza della sua scrittura e di qui partirà la rivolta contro la “spettaculaire dématérialisation du comportment humain(...)moralisation qui se fait au prix d’une systématique dématérialisation des corps”.
Sembra interessante anche quanto sottolinea Simone de Beauvoir:
“Si le projets humains prétandaient se réconcilier dans une commune recherche de l’intéréte général, ils seraient nécessairement inauthentiques: car il n’y a d’autre réalité que celle de sujet enfermé en soi et hostile à tout sujet autre qui lui dispute sa souveraineté”.
Ciò che però ha tutte le sembianze di rimanere insoluto, destinando la violenza dei personaggi sadiani ad un’inappellabile impotenza, sembra essere proprio il problema della sovranità di questo soggetto, che si vuole unico pur nella presupposizione della necessarietà della presenza d’altri su cui esercitare il potere di annullamento.
Il corpo lacerato e la ragione perversa

Quando Sade mette in scena i soggetti della propria rappresentazione del mondo, si ha l’impressione di essere trascinati nel mezzo di un campo di battaglia in cui più coscienze si fronteggiano per decretare chi alla fine avrà potere di vita e di morte sulle altre.
Ciò che costituisce l’oggetto conteso della lotta è precisamente il Desiderio di essere riconosciuto dall’avversario come l’unica coscienza per-sé, come la sola possibile Autocoscienza; il Desiderio che qui è in gioco è il Desiderio del Desiderio dell’altro; quello che la coscienza ricerca è d’impossessarsi dell’altro in quanto Desiderio e di ottenere da tale coscienza assoggettata il riconoscimento del proprio Sé. Per poter essere piena e reale Autocoscienza con assoluta presa di potere sull’ordine delle cose e degli uomini, l’Autocoscienza deve imporsi come valore per sé e per l’altro con il quale ha intrapreso la lotta.
“Desiderare il Desiderio di un altro significa, dunque, in ultima analisi, desiderare che il valore che io sono o rappresento sia il valore desiderato da quest’altro: io voglio che egli riconosca il mio valore come il suo valore, voglio che mi riconosca come un valore autonomo”.
Il fine ultimo della lotta per il riconoscimento è il compimento del Desiderio che, da vuoto irreale, da nulla rivelato, diviene atto di godimento, momento di pieno soddisfacimento in cui l’Autocoscienza realizzata gode dell’altro e di sé come soggetto reale finalmente riconosciuto.
Il movimento messo in atto dalla coscienza del Signore che ha conquistato il proprio sé è il processo di annullamento dialettico dell’altro, divenuto così coscienza servile; si è perciò messa in moto una sfida in cui il Signore ha provocato l’altro, lo ha coinvolto in una lotta e infine lo ha privato della sua autonomia. Tuttavia qui nasce l’esistenza tragica del Signore, riconosciuto da un individuo ch’egli propriamente non riconosce a sua volta come soggetto. Egli affida la possibilità stessa di realtà per la propria Autocoscienza ad un’altra coscienza che, esattamente rinunciando ad affermare sé come soggetto d’azione, può permettere la costituzione dell’io signorile.
Permettere, ma non garantire: come può infatti il Signore avere garanzia del proprio Sé da un altro che per necessità è destinato ad essere un oggetto dato, quell’unico oggetto dato che realizza in quanto tale la possibilità dell’Autocoscienza del Signore?
“Il Signore è riconosciuto da uno ch’egli non riconosce(...). Il Signore ha lottato e messo a repentaglio la propria vita, ma ha ottenuto soltanto un riconoscimento per lui senza valore, giacché egli può essere soddisfatto solo mediante il riconoscimento da parte di uno ch’egli giudichi degno di riconoscerlo. La posizione del Signore è, quindi, un vicolo cieco esistenziale”.
Tale vicolo cieco esistenziale sembra rimandare alla coscienza impossibile del libertino sadiano; si è detto rimanda, ma in realtà questo rimando si connota di tratti forse ben più tragici di quelli della coscienza dialettica hegeliana.
Il libertino è avvinghiato nella ricerca estenuante del proprio Sé, nel disperato tentativo di raggiungere la realizzazione del proprio io come Idea totalizzante, attraverso la violenta azione di annullamento sull’altro; qui il Desiderio si manifesta esattamente come mancanza, come tanatonico processo di annientamento dell’altro, per affermare, in tale distruzione, il proprio essere negatività-negatrice assoluta dell’esistente.
Il soggetto sadiano appare bloccato allo stadio primordiale della finzione dell’io, non sembra porsi in alcun momento all’interno di rappresentazione sociale, gettando e riflettendo il proprio io in un ordine rrappresentativo che esclude a priori l’esistenza reale d’altri. Ciò che ricava come riflesso da altri è sempre il moi riflettentesi e rimandante eternamente a sé, alla stregua del contrasto con il reale che sembra risolversi nella solitudine del rapporto con l’io riflesso ricercantesi nella rappresentazione del medesimo reale -l’altro in Sade non esiste, nemmeno oggettivato.
“Questa Gestalt(...)simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante; ed è anche gravida delle corrispondenze che uniscono l’io con la statua in cui l’uomo si proietta, come i fantasmi che lo dominano, ed infine con l’automa in cui tende a compiersi in un ambiguo rapporto con il mondo di sua fabbricazione”.
Il libertino appare allora colui che si affanna per raggiungere un oggetto di desiderio che non raggiungerà mai, e non lo raggiungerà perché è precisamente nello statuto di questo desiderio l’essere rivolto ad un oggetto sempre mancante. Egli non possederà mai l’oggetto perché si è escluso da qualsiasi concatenamento con lo stesso, collocandosi nei confronti dell’altro come strumento di territorializzazione e riterritorializzazione cieca e violenta: territorializzare l’altro è esattamente marchiare la sua pelle della proiezione del proprio Sé, quale istanza suprema di riconoscimento per assurgere ad Autocoscienza pienamente realizzata.
Di fatto, tuttavia, il libertino non intraprende nemmeno quella lotta in cui, rischiando la vita, acquisirebbe un’Autocoscienza; non c’è lotta perché il carnefice non riconosce neanche inizialmente la vittima come un’altra coscienza con cui competere. Tutta la tragicità grottesca dei personaggi sadiani sta proprio in tale movimento di misconoscimento e annullamento da un lato, di ricerca, nella vittima ridotta a nulla, dell’Idea, dell’io totalizzante che avvicinerebbe il carnefice alla violenza come negazione pura dall’altro.
Prigioniero all’interno di un simile processo di distruzione del reale ordine delle cose e dell’esistenza degli altri individui, il libertino è condannato alla solitudine assoluta del godimento come movimento esclusivamente mentale, alla realizzazione del crimine nella sterile sfera dell’apatia e dell’indifferenza; solo in tale distacco egli può realizzare l’istanza assoluta del godimento, in quel luogo in cui è il crimine concepito a mente fredda ad essere supremo garante del piacere tanatonico dell’atto erotico.
“Davvero non so se la realtà valga le chimere, e se il godere di ciò che non si ha valga cento volte quello che non si possiede(...). Il piacere che mi dà quest’illusione non è forse preferibile a quello cui la realtà mi farà godere fra poco?”.
A proposito della razionalizzazione dell’atto erotico:
Occorrerebbe procedere così: diminuire radicalmente la propria sensibilità non appena vi accorgete che il suo eccesso potrebbe trascinare al vizio, in quanto posso supporre che perfino dall’apatia a cui ridurrete il vostro animo potrebbero nascere danni, che saranno sempre inferiori a quelli che potrebbero derivare da un’eccessiva sensibilità(...). A poco a poco, senza accorgertene, la tua sensibilità scomparirà. non avrai evitato grandi delitti, anzi, ne avrai commessi e ne avrai fatto commettere di più atroci tu stesso, ma, almeno, sarà con flemma, in quell’apatia che permette alle passioni di nascondersi, e che(...)ti preserva da ogni pericolo”.
I corpi sono già trascesi e negati nella dimensione mentale, prima ancora di esserlo nell’esecuzione reale del crimine; la perversione perfetta è inattaccabile, l’atto di fede del libertino si compie nel momento sublime in cui riesce a concepire il misfatto a mente fredda, lucidamente, senza che un qualsivoglia stato passionale possa turbarlo. Alla fine dovrà essere il delitto a scatenare la passione e non quest’ultima a fungere da possibilità per il primo.
L’incontro di molteplici corpi e il loro utilizzo come tramiti per raggiungere l’estasi infernale dei sensi è scontro di feroci potenze e tuttavia solitarie, in cui l’elemento centrale non è mai il corpo, sempre già squartato, insozzato, usato e denigrato, ma la ragione perversa, strumento del più agghiacciante autoerotismo.
“Il mondo in cui si muove l’Unico è un deserto, gli esseri che vi incontra sono meno di oggetti, distruggendoli, non si impossessa solo della loro vita, ma verifica il loro essere nulla, si rende signore della loro inesistenza, e proprio da questa deriva il suo maggior piacere”.
La feroce considerazione dell’altro come misero strumento del proprio piacere, conduce il carnefice al miraggio di un movimento che si situa, e lo situa, al di là di qualsiasi reale incontro con altri corpi. L’esito ultimo di tale distruzione è la negazione infine anche del proprio corpo, là dove l’uomo sovrano si colloca nel grottesco vortice di una voluttà che “trascendendosi, non è più ridotta al dato sensibile -in cui il dato sensibile è trascurabile e in cui il pensiero (il meccanismo mentale) che presiede alla voluttà, si impadronisce dell’essere totale. La voluttà, senza questa negazione eccessiva, è furtiva, è spregevole, impotente a occupare il suo vero posto, il posto supremo, nel movimento di una coscienza decuplicata”.
La violenza inferta al corpo altrui è opera distruttrice del proprio corpo e di quello altrui, nonché della possibilità stessa della vita. Un’ombra di morte ricopre gli atti maniacali del perverso personaggio sadiano; il suo potere assoluto tende a manifestarsi, come sua unica occasione di presa di possesso sulla realtà, nella spietata libertà di annullare l’altro, nel divieto, inciso sul corpo della vittima, della sua naturale possibilità d’esistere.
Non c’è posto per un corpo pensato con Nancy come spaziamento dell’esistenza, come corpo che diviene continuamente altro nel toccarsi e nell’essere toccato, nel suo essere pelle e assolutamente privo di organi, dello spessore degli organi, nel suo esporsi come pura superficie di scorrimento d’intensità massime di godimento; non esiste alcuna possibilità di riconoscimento per tutto ciò quando a parlare di erotismo è l’istanza di un potere che, per aver presa sul reale, deve negare l’essere altro del corpo e la sua assoluta inappropriabilità.
Realmente, allora in Sade non si assiste ad alcuna formulazione concettuale positiva (Klossowski) del sadismo; ciò che viene inscenato dai suoi personaggi è la nuda rappresentazione dell’oltraggio. L’oltraggio perpetuato sul corpo della vittima è l’emblema dell’aggressione più feroce alle consuete norme del vivere; si assiste alla rappresentazione della scelleratezza del libertino attraverso l’insubordinazione delle funzioni del vivere nel compimento di un unico atto sempre ripetuto. La reiterazione è qui emblema del fallimento dell’atto sodomita, là dove il carnefice è costretto a commettere un numero infinito di delitti al solo fine di raggiungere quell’oggetto fonte d’indicibile godimento, che grottescamente non otterrà mai.
Simone de Beauvoir commenta così:
“La victime n’est jamais qu’un analogon, le sujet ne se saisit que comme imago, et leur relation n’est que la parodie du drame qui les mettrait réellement aux prises dans leur incommunicable intimité”.
Tuttavia non sembra di poter seguire l’autrice quando, sempre a proposito dell’ato sodomita, sottolinea che “en se faisant sodomiser, flegeller, soviller, Sade parvient aussi à la révélation de soi-même comme char passive; il assouvit son désir d’autopunition et accepte la culpabilité à laquelle on l’a volve; et aussitôt il revient de l’humilté à l’orgueil par le défi”.
Non c’è assunzione di colpevolezza in Sade, egli nega ostinatamente la realtà e, quindi, la validità del sistema, dell’iscrizione della Legge che lo condanna; Sade distrugge il reale circostante per affermare la verità, l’unica verità ch’egli riconosce, della violenza e della potenza della Natura, la quale fa da contraltare all’artificiosità delle convenzioni sociali e morali.
Se i personaggi sadiani si fanno investire da moti di feroce violenza, è per affermare in pieno la materialità del loro desiderio di annullamento del reale, realizzando così l’illusione metafisica della presa di potere totalizzante sullo stesso.
Non espiazione, ma iscrizione eterna del proprio potere assoluta e tragica consapevolezza della impossibilità di un completo eguagliamento dell’onnipotenza della Natura.
Nel momento in cui i personaggi sadiani, i più radicali nella attualizzazione materiale del pensiero e nella fantasmatizzazione del desiderio, giungono al culmine della potenza distruttrice e comprendono l’irrealizzabilità dei loro più efferati crimini, essi, allora, scelgono di compiersi definitivamente e questa scelta sarà definitiva perché tanatonica oltreché risolutiva, abbandonandosi alla foga irreparabile della Natura, per ricevere da essa, in ultima istanza, uno statuto d’esistenza.
Non c’è da stupirsi se tale compimento coincide con il loro dissolversi nel nulla della distruzione, perché è proprio della sostanza del soggetto ch’essi pretendono di rappresentare assumere su di sé la consistenza di un essere che è il nulla dell’esistenza e non potrebbe essere altrimenti quando l’io che pronunciano si ode solo a partire dal contatto con un oggetto di necessità assente.
Proprio là dove fallisce il progetto di costituzione dell’Autocoscienza, prende piede la necessità di rappresentare il soggetto attraverso il linguaggio, attraverso la violenza dell’enunciazione; e tuttavia tali enunciati mancano di un concatenamento: la reiterazione totalizzante e priva di un reale soggetto impedisce la realizzazione del desiderio inteso come desiderio produttivo, come reale-desiderio. Tutto è surcodificato, si assiste ad una “surcodificazione simbolica degli enunciati, soggetto fittizio dell’enunciazione”.
Gli enunciati del libertino vengono assunti come struttura fondante del soggetto, divengono le istanze soggettive, quelle stesse devolute poi alla costituzione di un Ordine del soggetto e del significante: viene inscenato un appiattimento del reale attraverso la fantasmatizzazione ad opera della mente.
“Il desiderio non è dunque interno ad un soggetto come non tende neanche verso un oggetto: è invece strettamente immanente ad un piano a cui preesiste, un piano che deve essere costituito, dove si mettono delle particelle, dove si fissano dei flussi”.
Al contrario in Sade la ripetizione infinita del medesimo atto e l’uso estenuante del medesimo linguaggio fanno pensare ad una sorta di ridondanza significante (Deleuze), una ridondanza che mette in moto un feroce processo di territorializzazione del reale e dell’altro, impedendo il realizzarsi di un movimento di rimando da un buco nero ad un altro, da un deserto ad un altro in una serie infinita di concatenamenti macchinici.
In questa ridondanza dell’enunciazione si assiste alla formazione della nuova Legge, quella del soggetto al di sopra di qualsiasi vecchio sé: un io direttamente identificato con l’Idea della negazione pura e del potere totalizzante -l’altro non è se non il Medesimo, il simile dello stesso, continuamente inglobato e riflesso nell’io del libertino.
La trasgressione delle norme del vivere, del normale stato di cose, dovrebbe affermare l’essere limitato, dovrebbe svelare il limite stesso dell’essere e costituire, in un balzo verso l’illimitato, l’esperienza sovrana del soggetto; un tale balzo in avanti rappresenterebbe il riconoscimento del limite stesso dell’illimitato, il riconoscimento dell’impossibilità del superamento di un limite che non sia esso stesso già limite del superamento.
La trasgressione avrebbe a che fare con questa esperienza dell’impossibile, del limite sempre superato e differito; solo nell’affermazione del limite vi può essere superamento, così come solo attraverso l’affermazione circa la morte di Dio ci si può avvicinare all’esperienza dell’al di là del limite e, in tale esperienza, liberare l’esistenza e dal limite imposto da Dio e dall’illimitato rappresentato ancora dall’istanza divina quale unica detentrice del sacro.
“Uccidere dio per liberare l’esistenza da questa esistenza che la limita, ma anche per ricondurla ai limiti che questa esistenza illimitata cancella (è il sacrificio)... Se fosse necessario, in opposizione alla sessualità, dare un senso preciso all’erotismo, sarebbe forse questo: un’esperienza della sessualità che unisce di per se stessa il superamento del limite con la morte di dio”.
In Sade, in realtà, non c’è un linguaggio del soggetto che si trascende al di là dei limiti stessi del linguaggio; la proliferazione dei discorsi e dei termini che dicono tutto, è ingabbiata nei percorsi circoscritti di un discorso tragicamente ripiegato su di sé; non si assiste alla dissoluzione del Soggetto che, parlando di tutto, smaschera la propria limitatezza; manca in Sade quella parola in più, quella parola di troppo che, insinuandosi nel linguaggio, lo renderebbe impossibile e lo condurrebbe al di là di sé.
Il linguaggio sadiano non raggiunge mai quel piano in cui sia possibile definire il luogo d’esperienza dove “il soggetto che parla, invece di esprimersi, si espone, va incontro alla sua propria finitudine e sotto ogni parola si trova rimandato alla sua propria morte”.
La proliferazione dei discorsi si configura all’interno dell’esperienza pura del doppio, quell’esperienza che porterebbe l’enunciazione di ogni linguaggio a ripiegarsi su di sé e a far convogliare tutti i discorsi possibili all’interno dell’unico Discorso universale e totalizzante. Il linguaggio di Sade è destinato così ad enunciarsi all’infinito, proprio per non rinunciare a rappresentare se stesso, il limite di se stesso, nel suo essere il proprio tragico doppio. E’ condannato alla proliferazione infinita perché non annuncia mai quella parola veramente in esubero, che lo condurrebbe alla esperienza-limite del proprio essere e lo priverebbe della possibilità stessa della parola.
Nella percezione del sé, nel suo essere il proprio doppio, non giungerà mai a porsi fuori di sé, a sondare i limiti del proprio enunciare e ad esporsi all’esperienza della morte del Soggetto e di dio.
Il libertino è preso all’interno dell’efferata logica del significante che fagocita e nullifica l’altro; è assolutamente imbrigliato nell’effigie di un Io ripiegato su di sé e chiuso al mondo. Nelle sue parole il segno rimanda continuamente e all’infinito ad un altro segno, secondo una circolarità che ne rappresenta la piena ridondanza e il perfetto collocamento all’interno del buco-nero del dispotismo del significante e del suo terrorismo nei confronti dei concatenamenti a-significanti del linguaggio.
“Un signe renvoie à un autre signe dans lequel il passe, et qui, de signe en signe, la reconduit pour passer dans d’autres encore(...). La signifiant comme redondance avec soi du signe déterritorialisé, monde mortuaire et de terreur”.                                                                        

Il fantasma e l’Altro nell’istanza frantumata della Legge

Nel movimento di distruzione cieca e violenta, messo in atto dai personaggi sadiani, l’istanza di morte non è rivolta tanto ad annullare l’altro, a negargli la possibilità di vivere, quanto, più profondamente, ad imputargli la stessa colpa d’esistere.
La presa di potere del libertino sulla vittima è esattamente la facoltà assoluta di decidere sul valore della sua vita e sul genere di morte che gli permetterà di espiare l’oltraggio costituito dal mero fatto d’esistere. Il desiderio che guida le azioni del carnefice sembra mancare perennemente l’oggetto cui è rivolto; si ha quasi l’impressione che la reiterazione continua del medesimo atto sia il disperato tentativo d’impossessarsi di qualcosa che sempre manca al suo posto: il godimento perpetuo.
Sembra che l’unica possibilità di costituirsi come Soggetto assoluto di potenza risieda nell’oscura presa di potere su di un corpo che suscita il desiderio e che, nondimeno, deve essere annullato per restituire l’identità ideale con se stesso.
D’altro canto l’altro, mai riconosciuto come soggetto, è relegato a fungere da complice inadempiente della volontà del carnefice; “dunque è l’Altro in quanto libero, è la volontà dell’Altro che il discorso del diritto al godimento pone come soggetto dell’enunciazione, e non in modo differente dal ‘tu es’ che s’evoca dal fondo uccisore di ogni imperativo”.
E tuttavia mai l’oggetto si costituirà come sicuro possesso del soggetto; il soggetto, in tal senso, sarà condannato ad essere niente più che la propria sincope: “è un caso di necrofilia”, come sostiene Lacan.
Il fantasma, il fantasma di cui il desiderio non è se non un mera scoria, non troverà mai il suo compimento, mai sarà data al carnefice l’identificazione con la vittima. Sulla scia di questo mancare a sé e all’Altro, sembra di poter sostenere con Lacan che in Sade il desiderio è ancora sottomesso alla Legge.
Nel momento in cui il libertino crede di disfarsi della Legge, di trovare il modo di sottrarsi all’ordine di una coscienza interiore, s’appella al processo infinito di reiterazione del medesimo crimine; al reiterazione dovrebbe condurlo ad un grado tale di indifferenza per l’oggetto, da permettergli di collocarsi al di là del bene e del male, al di là della morale e della Legge. Non sembra tuttavia che tale soluzione risolva realmente il problema dell’esistenza e della sussunzione ad una legge interiore: vi è allora ancora un intimo legame fra il desiderio e la Legge.
Nonostante ciò il rapporto di Sade o piuttosto dei suoi personaggi con la Legge appare alquanto ambiguo; Deleuze fa notare come nell’autore la violenza delle parole, l’esplicitazione ossessiva di ogni dettaglio, si collochi al livello di un processo che, inizialmente imperativo, si evolve poi per fissarsi su di un piano dimostrativo.
Il luogo per eccellenza del linguaggio sadiano è quello dell’istituzione, dove l’istanza assoluta del potere si realizza attraverso la dimostrazione della propria verità. Sembra ci sia sempre un trapasso dall’elemento personale (del comando) a quello impersonale (della dimostrazione), da quella che si definisce seconda natura, alla prima, in un percorso in cui Sade può invocare il gioco assolutamente personale del comando e del desiderio -in tal senso si può parlare di un’intima connessione fra il desiderio e la Legge.
Nella distinzione tra seconda natura e Prima, quest’ultima si colloca all’interno del movimento di negazione assoluta che il libertino ricerca nelle maglie della reiterazione; egli si dispererà d’essere relegato nella seconda natura, condannato all’impossibilità di realizzare un crimine che procuri sofferenze eterne alla vittima; così Saint-fond in Juliette: “se è vero, mi dico, che ci sono pene e ricompense in un altro mondo, le vittime della mia scelleratezza trionferanno, saranno felici. Tale idea mi esaspera. La mia enorme barbarie mi porta a questo tormento: quando immolo un oggetto alla mia ambizione, alla mia lussuria, vorrei prolungare i suoi mali oltre l’immensità dei secoli”.
Nell’impossibilità di realizzare il crimine assoluto, il libertino si ritroverà ingabbiato nell’unico processo eseguibile: il movimento del negativo; si affannerà inutilmente a ricercare una negazione come pura idea totalizzante, a ricercare quell’Io ideale, quella Idea di potenza per cui mettere in moto il suo più scellerato immaginario.
“L’eroe sadico appare qui come colui che si pone come compito di pensare l’istinto di morte (negazione pura) in forma dimostrative, e che può farlo solo moltiplicando e condensando il movimento delle pulsioni negative o distruttrici parziali”.
La negazione pura che il criminale si dispera a ricercare attraverso la ferocia inaudita dei suoi molteplici delitti, in null’altro si risolve se non in un tanatonico movimento di incisione sui corpi; il potere assoluto cui egli anela, si conclude in un macabro tentativo di iscrivere il verdetto di morte, effigie di un logos impotente per la sua finitezza, sulla carne dei corpi da sempre già cadaveri.
Un vero teatro della crudeltà in cui si assiste al penoso tentativo di un soggetto che ricerca l’icona della propria potenza, il proprio Io ideale, nel fagocitamento di un oggetto che non raggiungerà mai, perché ingabbiato in un moto continuo di sussunzione e negazione.
Sembra che in questo tragico anelito si costituisca una sorta di fantasma di gruppo in cui l’io del libertino è direttamente definito dall’identificazione con l’istituzione: l’io è l’istituzione stessa. Se in Sade la forza di distruzione è rivolta interamente contro la Legge, per arrogarsi il trono dell’istituzione, allora il fantasma che si ravvisa nella opposizione alla Legge, può forse essere letto come il rafforzamento del vecchio io attraverso la formazione di un Super-io che fa tutt’uno con l’istituzione.
“Quel che caratterizza l’uso sadico del fantasma è una violenta potenza di proiezione, di tipo paranoico, mediante la quale il fantasma diventa lo strumento di un cambiamento essenziale e improvviso, introdotto nel mondo obbiettivo. Il fantasma acquisisce allora il massimo potere di aggressione e di sistematizzazione nel reale: l’idea viene proiettata con rara violenza”.
La proiezione violenta dell’idea è precisamente situata all’interno di un campo in cui la Legge non è più garante di u  ordine benefico; ciò su cui ora la Legge si fonda è una totalizzante idea del male, il libertino è allora l’essere supremo di malvagità (Deleuze), colui che si muove nello spazio dell’indeterminatezza e dell’erranza della Legge, quello stesso spazio all’interno del quale non è possibile conoscere la colpa, lì dove la condanna è iscritta direttamente e ferocemente sul corpo del suppliziato.
In questa terra di nessuno non vi sono più limiti della legge da trasgredire, si è sempre già colpevoli prima ancora di sapere cosa si sia commesso, né se poi qualcosa si sia realmente compiuta: siamo già nella sfera della trasgressione assoluta della Legge da parte di se stessa, nel campo anarchico dell’istituzione.
Qui la Legge è inglobata in un movimento di uscita dai propri stessi limiti, si colloca al di là di sé, fuori dal proprio campo di decidibilità, nella presupposizione di un “non giuridico (per esempio, la mera violenza in quanto stato di natura) come ciò con cui essa si mantiene in rapporto essenziale di eccezione”.
L’istanza del potere esercitata dal libertino attraverso l’istituzione è il luogo del logos più feroce, della parola, del processo, della dimostrazione, dell’istruzione in senso giuridico, in cui un processo immaginario è eseguito sul corpo della vittima, sulla carne il cui marchio è già solo la condanna; il verdetto: tu, Altro, porti incisa sul tuo corpo la colpa d’esistere.
Si assiste al compimento della costituzione dell’universale funzione del soggetto attraverso il linguaggio; l’essenziale è che questo io, formatosi nell’identificazione con l’istituzione anarchica, e nel sacrificio del corpo dell’Altro, sia l’istanza dell’Io ideale, il quale fungerà poi da struttura di base per la formazione del soggetto.
Si è sempre all’interno di un campo in cui i corpi sono inequivocabilmente trascesi dallo sguardo dell’Idea che sostanzia il Soggetto; seguendo Agamben si può sottolineare come qui il piacere e il desiderio rientrino e vengano sostenuti, con il tramite del fantasma, dalla sfera dell’incorporeo.
“Desiderio e piacere non sono possibili senza questa ‘pittura dell’anima’”.
Il desiderio non è più produzione, ma mancanza, disperato tentativo di raggiungere il proprio Io ideale attraverso la sussunzione della volontà altrui in quel movimento che porta il carnefice ad installarsi nell’intimo dell’oggetto del suo desiderio, nel suo irraggiungibile al di là, “colpendone il pudore” (Lacan).
“Quando si riduce la produzione desiderante a una produzione di fantasma, ci si accontenta di trarre tutte le conseguenze dal principio idealistico che definisce il desiderio come mancanza, e non come produzione, produzione industriale”.
Allo stesso modo il processo di ripetizione infinita del medesimo atto si situa all’interno di uno spazio ideale, in cui la reiterazione e l’atto erotico diventano idea. Si comprende, perciò, perché Deleuze parli di un processo di desessualizzazione costituito dalla stato di apatia, fine ultimo del libertino; il processo di desessualizzazione è ciò che accompagna la ripetizione e ciò su cui si fonda l’esperienza del piacere.
In questo misticismo perverso l’esperienza del piacere, così come quella del dolore, non riguarda assolutamente un piano sessuale; nelle azioni del libertino due movimenti s’intrecciano: l’uno di desessualizzazione in Eros, l’altro di risessualizzazione in Thanatos. Il mistero è nel duplice e ambiguo processo per cui in un primo tempo la desessualizzazione nella ripetizione si salda e si contrappone all’esperienza del piacere (apatia), e in un secondo tempo il meccanismo di risessualizzazione sembra far scaturire il piacere dal movimento stesso del dolore.
Così Deleuze: “nel sadismo il rapporto con il dolore è un effetto(...). Nel cuore del sadismo vi è il progetto di sessualizzare il pensiero, di sessualizzare il processo speculativo in quanto tale, in quanto dipendente dal Super-Io”.
Un feroce meccanismo mentale e un perverso gioco di potere è ciò che permea e sostanzia l’opera di Sade; non corpi, ma oggetti, meno che oggetti, per una mostruosa carneficina.
“Nel carnaio i cadaveri non sono dei morti, non sono i nostri morti: sono piaghe ammucchiate, strette le une alle altre, che colano le une sulle altre e che la terra ricopre direttamente, senza un sudario che determini lo spazio tra un morto e l’altro”.
Il progetto di sessualizzare il pensiero e di lacerare i corpi nel carnaio è il progetto del soggetto che costituisce il proprio sé attraverso l’enunciazione della realtà; questa enunciazione è ridondante in quanto istanza della Legge che permette al Soggetto di territorializzare e sostanziare di sé il reale.
Nel linguaggio di Sade si realizza la rappresentazione delle cose attraverso il nome, la perfetta coincidenza di parole e cose garantisce la possibilità di nominare l’essere attraverso l’enunciazione del Verbo. La brutalità nuda della coincidenza fra parole e cose si attua tramite la violenza di un nome che è pronunciato solo per se stesso e che si configura in uno spazio in cui le altre parti del discorso acquistano autonomia rispetto a tale centralità rappresentativa e sfuggono alla sovranità del nome.
Il nome in questa pura forma rappresentativa permette “un discorso non discorsivo, il cui compito sarà di manifestare il linguaggio nel suo essere grezzo”.
E tuttavia questo linguaggio che si mostra nel suo essere grezzo impedisce la realizzazione, la possibilità stessa del linguaggio; in Sade di rimando all’utilizzo della parola che, violentemente solitaria, nomina l’essere, si assiste all’incapacità della stessa di portare l’essere fuori di sé e fuori dal linguaggio.
È qui che il logos cerca la piena affermazione di sé nella capacità di nominare direttamente il reale; il Logos diventa il Verbo che enuncia sé enunciando la realtà, ricercando e confondendo l’empirico nel trascendentale, confinandosi all’interno di un eterno vicolo cieco costituito dalla specularità dell’essere con la parola. Questa circolarità del pensiero che impedisce al linguaggio di proporsi come mormorio incessante insinuato nelle pieghe del reale, è il fallimento dell’istanza dell’Io-penso che, pur prendendo le distanze dalla pretesa classica di enunciarsi immediatamente come Io sono, non si arrischia a pensare la possibilità di esistere come proprio limite, come limite del pensiero che si pensa, infine come pensiero-limite.
“Posso forse dire di essere questo linguaggio che io parlo e in cui il mio pensiero penetra al punto di trovarsi il sistema di tutte le proprie possibilità, ma che tuttavia esiste soltanto nella pesantezza di sedimentazioni che non potranno mai venire interamente attualizzate da questo mio pensiero?”.
Nel momento in cui il pensiero diventa pensiero che deve sfuggire a se stesso, che deve uscire da sé per ripensare l’essere e ripensarlo secondo le linee di una domanda multipla e proliferante, allora si apre la possibilità per il soggetto di pensare l’impensato, di figurarsi come il proprio Altro. Allo stesso tempo, la domanda del soggetto non può più essere quella dell’Io penso che rappresenta tautologicamente il reale e se medesimo a partire dall’unica istanza che è quella del Sé che si pensa; la domanda del soggetto che spazia nei luoghi dell’impensato e sonda le possibilità e i limiti dell’Io come pensiero di sé e del mondo, è quella che porta Foucault a chiedersi: “cosa devo essere, io che penso e sono il mio pensiero, per essere ciò che non penso, e perché il mio pensiero sia ciò che non sono?”.
Quando il Soggetto si definisce come Io penso, come individualità che pensa sé pensante, l’oggetto-individuale che rappresenta non è se non la proiezione dell’autoriferimento puro. Nel momento in cui l’appercezione, cioè l’Io penso, decade e, assieme ad essa, decade il nesso dell’individuale con l’autoriferimento, decade insomma l’appercezione come istanza fondativa, è il soggetto che si pensa come suo limite ad esprimersi nel suo essere nel ‘continuum’ delle sensazioni non appercepite. Al contrario, la funzione dimostrativa della ragione di Sade non porta il linguaggio al punto in cui esso stessi si dissolverebbe nel proprio appartenere al sensibile; nel sensibile è racchiuso tutto ciò che sfugge all’istanza dell’Io penso; l’eterogeneità del sensibile al linguaggio si manifesta esattamente nel collocarsi del linguaggio come anteriore al Sé e nel dileguarsi del sensibile nel momento stesso della sua rappresentazione.
“Che il Soggetto appaia come un presupposto irrappresentabile per il soggetto, ciò è la spia indiretta del carattere materiale e corporeo, infine non soggettivo, dell’appartenenza al mondo”.
La ragione del libertino è perversa così come perverso è il pensiero calcolante “che organizza il mondo ai fini dell’autoconservazione e non consce altra funzione che non sia quella della preparazione dell’oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento”.
Nella concezione che Sade si forma della ragione, essa diviene puro schema, finalità senza scopo che, proprio in quanto indifferente a qualsiasi scopo, può adeguatamente indirizzarsi verso ogni scopo. È il puro meccanismo della ragione in quanto sistema totalizzante, in quanto Logos unico e onnipotente, che permette l’assoluta estraneità della ragione e rende il linguaggio alieno a sé medesimo.
La ragione diventa il nudo piano di organizzazione del Reale, ma di un reale che, proprio in quanto staccato dal soggetto che lo enuncia, che lo denota, si allontana irreparabilmente dal Sé del linguaggio e rende lo stesso soggetto inaderente a sé. Se il soggetto prende coscienza attraverso l’atto linguistico che è presa di potere sul Reale (io denoto il mondo, perché Io sono, Io penso questo mondo) e se d’altronde, questo stesso Reale risulta inattingibile al Soggetto, in quanto non determinato da esso, allora il Soggetto è condannato a perdere sé ogniqualvolta si appresta ad affermarsi come Io nell’atto totalitario di enunciare la realtà: il paradosso del Logos impotente.

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